mercoledì 27 ottobre 2010

DONNIE DARKO (R.Kelly, 2001)

Donnie Darko (J. Gyllenhaal) è un adolescente con problemi psichici e vive a Middlesex, una cittadina statunitense. Una notte, sonnambulo, vede un coniglio gigante che gli predice la fine del mondo tra 28 giorni, 6 ore, 42 minuti, 12 secondi. Si sveglierà in un campo da golf per poi scoprire che la sua camera da letto è stata completamente distrutta dal motore di un boeing precipitato dal cielo.

Prima ancora di uscire nelle sale italiane Donnie Darko era già un cult. Distribuito in concomitanza con l'attentato alle torri gemelle, passò quasi inosservato. Divenuto leggenda per il passaparola di chi l'aveva visto, arrivò nei festival cinematografici italiani tre anni dopo, nella versione director's cut. La versione ufficiale venne finalmente proiettata nel Novembre del 2004.

Subito inserito nella lista dei migliori 100 film di sempre, Donnie Darko funziona come teen movie, come film fantascientifico, come lucida narrazione storica degli ultimi anni '80.
I 28 giorni mancanti alla fine del mondo (una curiosità: il film pare sia stato girato davvero in 28 giorni) sono quelli che precedono l'elezione alla presidenza di Bush Senior contro Dukakis. Anni che per gli Stati Uniti hanno rappresentato la fine di un'epoca. E Richard Kelly racconta l'adolescenza in una cittadina provinciale, senza stimoli emotivi, bigotta e superficiale, attraverso gli occhi di un ragazzo incompreso e solo.
Donnie vive con la sua famiglia, piacevole e serena come quelle che si trovano nelle migliori sit com. Frequenta una terapista perchè affetto da qualche "turba emotiva" manifestatasi già da tempo, quando diede fuoco ad una casa. Il carattere introspettivo e la sua spiccata intelligenza lo rendono non solo un lucido esempio di criticismo storico-sociale, ma anche, e proprio in virtù di questo, una voce fuori da un coro monotono e remissivo.
In Donnie sta il male sedato di un'intera generazione che ha visto scivolarsi il futuro tra le mani. Ma anche la voglia di scoprire, di indagare sebbene le risposte non sempre sono facili da ottenere.

Ma si può parlare di questo film anche -e soprattutto- come di un'avventura fantascientifica in cui trova posto una potente componente horror che è tutto fuorchè citazionista (La casa di S.Raimi, Ritorno al Futuro di R.Zemeckis, non sono citazioni ma passioni dichiarate in inserti che non risultano invadenti né compiaciuti). La costruzione fantascientifica ha a che fare proprio con la Filosofia del Viaggio nel Tempo, con l'incontro tra universo primario e universo tangente, con i wormhole ecc... Alla luce di tutto questo, riguardando il film, si da tutto un altro peso alla sceneggiatura. Donnie Darko è davvero un supereroe, (come lo canzona Gretchen nel dirgli Che razza di nome è? Sembra quello di un supereroe) perchè suo è il compito di risolvere il paradosso temporale: il motore che viene dal futuro si scaglia sulla sua casa, ma se non sarà lui a dar motivo all'aereo di passare di là in quel preciso istante (bruciando la casa di Jim Cunningham e facendo la festa in casa che permetterà l'incontro con Frank), il mondo finirà, perchè nell'incontro tra i due universi uno collasserà nell'altro (per una spiegazione dettagliata visitate http://altreparole.blogspot.com/2004/12/donnie-darko-una-spiegazione.htm). Nelle diramazioni che la sceneggiatura intraprende c'è posto per una sofferta intuizione sul futuro, sulla sua possibile conoscibilità e conseguente cambiamento, con tutti i dubbi etici che ne derivano. Ed insieme a Donnie, nel suo universo provinciale ed omologato, non trovano posto né comprensione poche menti illuminate, la professoressa di letteratura Karen Pomeroy (Drew Barrymore) e il professor Kenneth Monnitoff (Noah Wyle), ostacolate dal buonismo facile particolarmente congeniale alle dottrine di Jim Cunningham (Patrick Swayze).

Infine, Donnie Darko è una storia d'amore. Anche se ripulita da tutto il resto, tolta la fantascienza, l'horror, la critica storica, resta una storia adolescenziale che funziona ugualmente. Inserita in un genere, certo, ma comunque diversa da tutte le altre per ricchezza e profondità del racconto emotivo. E che Donnie sorrida perchè sa che la complessità dell'universo può essere conosciuta, perchè chi muore non muore solo, o perchè ha salvato davvero il mondo, non importa. Quel che conta è che Donnie Darko è un film che non si esaurisce.
RICETTA
Per un cult movie ci vuole un cult food...

PIZZA 4 STAGIONI
250g di Farina 00
15g di lievito di birra

150ml di acqua tiepida

1 cucchiaio raso di sale
Polpa di pomodoro, 250 g
2-3 pomodori maturi
4 filetti di peperone rosso
Mozzarella di bufala, 250 g
Ricotta, 200g
Funghi coltivati, 200g
Gamberetti sgusciati, 100g
Prosciutto crudo (4 fette)
Succo di limone
Prezzemolo
Uno spicchio di aglio
Vongole veraci e cozze, 400g
Olive nere e basilico (per guarnire)
Olio di oliva
Stemperate il lievito in un terzo dell'acqua e lasciatelo riposare 15 minuti (potete aggiungere un pizzico di zucchero). In mezzo bicchiere di acqua tiepida sciogliete il sale. In una ciotola stemperate la farina, aggiungete il lievito e cominciate a lavorarla con un cucchiaio di legno. Poco a poco aggiungete l'acqua rimasta e il sale sciolto. Procedete impastando energicamente con le mani. Appena l'impasto è consistente continuate a lavorarlo su un piano infarinato usando tutta la mano. Dopo circa 10-15 minuti, sbattete la pasta per liberare il glutine, rimettetela in una zuppiera, coprite e lasciate lievitare per 2 ore.
Puliti i pomodori, fateli a listerelle, così come i filetti di peperone. Nettati i funghi, tagliateli a fettine. Saltateli 5' in padella con olio, aglio e prezzemolo: teneteli in caldo. Fate aprire le cozze in padella con le vongole, olio e un goccio di succo di limone. Tenete anch'esse in caldo. Spianate la pasta; spalmatela leggermente di pomodoro e distribuitevi il rivestimento a spicchi: sul primo uno strato di ricotta, sul secondo fette di mozzarella e listerelle di pomodoro, sul terzo strisce di peperone, sull'ultimo il restante pomodoro. Salate leggermente, introducete le pizze in forno a 220 'C e cuocetele 15. Estraetele, accomodate i funghi sui peperoni, frutti. di mare e gamberetti sui pomodori, prosciutto tagliuzzato su a ricotta. Rimettete in forno per 5': guarnite con olive e foglie di basilico.

Su http://www.pizza.it/ potete trovare altre idee e ricette.

martedì 26 ottobre 2010

BURIED- SEPOLTO (R. Cortés, 2010)

Paul Conroy (Ryan Reynolds) si sveglia in una cassa da morto, sepolto. Ha con sé un cellulare, un accendino, una matita. I minuti passano, la batteria del cellulare si sta scaricando e la sua vita è appesa a un filo.

Al suo secondo lungometraggio, Rodrigo Cortés punta tutte le carte sull'aspettativa. Dirige ed impacchetta un film e, letteralmente, l'unico interprete per provocare un effetto deciso nel pubblico. Ci mette dentro suspence e qualche goccia di Iraq che, di questi tempi, va sempre bene. Non sia mai che dovessimo pensare che il Medio oriente non è una polveriera pronta a distruggere la vita di qualsiasi cittadino. E in un colpo sbaraglia l'aspettativa di un film che in poco spazio potrebbe davvero uscirne grande.

Seppur riscattato da un finale asfissiante (ancora una volta, letteralmente), la tensione che dovrebbe percorrere tutta la vicenda è stemperata di continuo dal tono canzonatorio e scostante di chi sta all'altro capo del telefono. Non ultima, anche la telefonata alla madre tira fuori qualche segno di dissenso, caricata di una drammaticità fuorviante.

Buono il lavoro di regia che si muove in modo spigoloso e, all'occorrenza, disinvolto quasi a partecipare alla sepoltura del protagonista. Nell'allontanarsi dal corpo, dando profondità alla cassa, la macchina da presa spinge dietro di sè la parete, complice nel decidere se e quanta aria dare al prigioniero.
Reynolds, dal canto suo, fa un buon lavoro, ma l'ansia e la claustrofobia non passano a sufficienza da poter contagiare. Gli ultimi minuti valgono da riscatto -ripeto- ma, in un film che punta tutto sull'effetto realistico, le domande che restano sono troppe: perchè lo hanno sepolto invece di rapirlo come hanno fatto con gli altri? Perchè ancora l'Iraq? Perchè Ryan Reynolds non sembra un camionista? (Una volta che si prende il via con le domande ogni dubbio diviene lecito...)

RICETTA
Cosa vorreste mangiare se foste costretti in una cassa per un paio d'ore senza sapere se ne uscirete vivi? Ehm...probabilmente niente. Allora faccio una domanda analoga. Quale sarebbe un piatto di cui sentireste una mancanza irrisolvibile se doveste rinunciarci? Non mi resta che proporvene uno. Provatelo e non riuscirete più a dimenticarlo...
FOCACCIA RUSTICA IMBOTTITA
250g di Farina 00
15g di lievito di birra

150ml di acqua tiepida

1 cucchiaio raso di sale

per il ripieno:
50g di fontina

patate

pancetta affumicata in fette sottili

rosmarino

1 spicchio d'aglio
sale q.b.
Stemperate il lievito in un terzo dell'acqua e lasciatelo riposare 15 minuti (potete aggiungere un pizzico di zucchero). In mezzo bicchiere di acqua tiepida sciogliete il sale. In una ciotola stemperate la farina, aggiungete il lievito e cominciate a lavorarla con un cucchiaio di legno. Poco a poco aggiungete l'acqua rimasta e il sale sciolto. Procedete impastando energicamente con le mani. Appena l'impasto è consistente continuate a lavorarlo su un piano infarinato usando tutta la mano. Dopo circa 10-15 minuti, sbattete la pasta per liberare il glutine, rimettetela in una zuppiera, coprite e lasciate lievitare per 2 ore.
Intanto prendete 3-4 patate. Lavatele bene e tagliatele in sottili fette tonde senza togliere la buccia. Adagiatele su una teglia ben oleata con l'aglio e il rosmarino. Infornate a 200° per circa 30 minuti. Trascorse le 2 ore, lavorate un altro pò la pasta sulla spianatoia infarinata. Oleate una teglia tonda e stendetevi sopra metà dell'impasto. Riempite con uno strato di patate, uno di fontina, uno di pancetta e ancora uno di patate. Chiudete con la pasta restante. Oleate la superficie stemperandola con qualche ago di rosmarino e qualche granello di sale (meglio se affumicato). Infornate nel piano medio del forno alla temperatura massima per 15-20 minuti.


giovedì 21 ottobre 2010

IL SEGRETO DEI SUOI OCCHI ( J. J. Campanella, 2009)

Benjamìn Esposito (Ricardo Darìn), vice cancelliere presso il tribunale di Buenos Aires, ormai in pensione decide di riscrivere sotto forma di romanzo un caso di omicidio avvenuto diversi anni prima. Ripercorre così la vicenda, riportando alla memoria i dialoghi col marito della vittima (Pablo Rago), la ricerca dell'assassino e, non ultimo, il suo amore mai dichiarato per Irene (Soledad Villamil), il suo capo.

Benjamìn scrive per salvaguardare la memoria. Ma non racconta la Storia, quella con la maiuscola, ma una storia che ha segnato la sua vita. Il desiderio di raccontarla ha a che fare con il riprendere le redini di una situazione che mentre veniva vissuta non aveva punti da mettere a fuoco. Benjamìn affonda nelle tracce di questa storia per ricostruire la sua. Non indaga sulle vicende che in quegli anni portavano l'Argentina al massacro, ma si limita a dire, inerme, Povero Pablo. E intanto cerca la giustizia che non ha potuto afferrare in quella piccola storia di amore e morte. Si può salvare una parte del passato se si restituisce spessore e giustizia ad un evento passato in sordina. E intanto, per lui, ritrova spessore anche tutto il "non detto"di quegli anni. L'amore impossibile per il capo, la morte di un amico al posto sbagliato nel momento sbagliato, l'esilio. Tutto è romanzato dai suoi occhi.

Campanella gioca ad incastro. Porta lo sguardo sempre più a fondo in un intreccio di rimandi che formano una matrioska di storie e ambienti. E più ci si addentra, più si perde di vista ciò che sta al di fuori, il contorno.  Le inquadrature raccolgono i personaggi al loro interno, nella quasi totale assenza di un controcampo. Lo sguardo della macchina da presa è sempre regolato e presente, quasi presuntuoso nel voler raccogliere tutti dentro di sé, espandendosi a dismisura nello splendido artificio del piano-sequenza allo stadio. Ambienti controllati dallo sguardo, dunque, e l'ambiente ultimo non è la cella, dai contorni sfuocati e lo sguardo costretto ad errare tra le sbarre, ma la porta chiusa. Ultimo conto da pagare alla memoria.

Pochi tratti per delineare i personaggi e tutto il resto di loro è ancora sguardo. Lo sguardo dello spettatore, lo sguardo di Benjamìn su Irene, lo sguardo di Isidoro su Liliana, lo sguardo insolitamente lucido di Pablo. Il contrappunto tra la visione narrata e la narrazione sospesa tra le pieghe della storia deflagra nell'ultimo incontro tra Esposito e Morales. Non si può chiedere il conto alla storia, ma solo a se stessi.

RICETTA
Il Segreto dei Suoi Occhi, come già il titolo lascia intendere, narra una storia molto intima. E l'intimità è fatta di sguardi celati, parole non dette, ed una regia in questo caso delicata che stenta a denunciare la propria presenza. Una ricetta adatta dovrebbe inserirsi in sensazioni simili, ma senza farsi notare, rispettando le solitudini che si sfiorano sullo schermo senza disturbare. Voi mi direte che sto dicendo una marea di cavolate?!? Invece no, mi sto solo complicando la vita.
Qualcosa di soffice, dal sapore poco deciso, che sembri un dolce ma che non sia dolce....
PANE SOFFICE DI ZUCCA
500g di zucca gialla lavata e tagliata a quadratini
550g di farina 00
1 bustina di lievito per panificazione in polvere
100g di zucchero
1 cucchiaino di sale
150 ml di latte tiepido
1 uovo
Cuocete la zucca in acqua salata per 10 minuti. Lasciatela raffreddare, scolatela e passatela al passaverdure. Setacciate la farina e il lievito in una ciotola grande. Al centro versate zucchero, sale e passato di zucca. Cominciate ad impastare aggiungendo gradatamente il latte. Lavorate per almeno 10 minuti, sbattete l'impasto sul tavolo così che liberi il glutine. Formate un panetto e mettete a lievitare in un luogo tiepido e asciutto e coperto da un canovaccio umido per circa un'ora. Dopodichè dividete l'impasto in due filoni, poneteli su una teglia infarinata ed incidete la superficie. Lasciate lievitare per altri 15-20 minuti. Spennellate con l'uovo sbattuto, riscaldate il forno a 200° e cuocete per circa 30 minuti. Nel forno mettete una ciotola piena d'acqua. Lasciate raffreddare e servite.

venerdì 15 ottobre 2010

IL FASCINO DISCRETO DELL'ILLUSIONISMO: THE PRESTIGE (C. Nolan, 2006)

Robert Angier (Hugh Jackman) e Alfred Borden (Christian Bale) sono due apprendisti maghi. La loro amicizia si trasforma in rivalità quando, durante un'esibizione, la presunta imprudenza di Borden causerà la morte di Julia (Piper Perabo), moglie di Angier. Alla ricerca del prestigio perfetto, l'ossessione li renderà spietati.

Magistrale nel creare un'atmosfera crepuscolare e nel dirigere gli attori sapientemente, ribaltando e giocando con la nostra idea di giustizia sui personaggi, Nolan ambienta il suo film alla fine del XIX secolo. Parlando di illusione, le riflessioni metacinematografiche sono quasi scontate. Così come le ambientazioni fin-de-siècle hanno in auge un sospetto di cambiamento in atto, o delle aspettative. Così accadde per la temibile fine del mondo agli albori del secondo millennio ma, più spesso, al nuovo secolo si chiedono progressi scientifico-tecnologici.
Il film soddisfa gran parte di queste aspettative e condensa nella figura di Tesla (un David Bowie quanto mai carismatico) la sorpresa e l'ammirazione per una mente scientifica che, nel momento stesso in cui vanifica la riuscita del prestigio negandone l'illusorietà (l'illusione della magia diviene realtà della "magia") ci consegna immediatamente la fiducia della meraviglia.

In The Prestige, appare evidente come la ricerca della perfezione, dell'illusione pura, costi ad Angier e a Borden un prezzo. Entrambi devono fare i conti con il proprio doppio ma, mentre Borden lo accetta come parte di sè, Angier ne è terrorizzato e lo distrugge. Ma il destino di entrambi è analogo. Se il primo continua a vivere avendo dovuto sacrificare Fallon, il secondo muore perchè non ha mai voluto vedere se stesso nel proprio doppio. E in ogni caso, si tratta di morte.

Lacan annoverava tra le fasi del riconoscimento di sè quella dello specchio. Teoria largamente ripresa in ambito psicanalitico-cinematografico per giustificare l'immedesimazione e, per contro, il piacere voyeristico dello spettatore al cinema. Angier nel film è ripreso più volte riflesso in uno specchio; il suggerimento ad una sua immagine multipla si risolve nella scena finale della morte. Come a dire, sebbene i suoi riflessi fossero multipli, il totale rifiuto di accettarli come parte di sè lo condanna a morirne. Così come il suo non voler accettare la soluzione del prestigio impone il non superamento di questa fase verso quella successiva. Dopo il prestigio c'è l'applauso. E la mancanza dell'applauso finale è la gabbia eterna dell'illusione.

Tornando alle considerazioni sul cinema in sè, la curiosità mi porta a scoprire che il 1899 , pressappoco l'anno di ambientazione del film, è anche l'anno di nascita di Gloria Swanson (quanto di più mortifero e metacinematografico può esserci di Viale del Tramonto ?), di Humphrey Bogart (tipico volto del noir) e di Alfred Hitchcock (superflua ogni aggiunta di commento). Esponenti di un cinema che si fa dialogo con se stesso, della messa in discussione del suo statuto e soprattutto cinema che porta in sè un tremendo presagio di morte.

Nolan conduce lo spettatore alle origini dell'illusione per poi distruggerla. Come la bambina a cui Cutter (Michael Caine) mostra la magia, lo spettatore resta incantato e totalmente rapito dal trucco, ma al suo rivelarsi non si può che pensare che il tempo dell'illusione -del cinema d'illusione- sia svanito (L'uccellino è morto, dice il nipote di Sarah). Il cinema ha svelato i suoi trucchi rischiando, ad oggi, la morte del cinema stesso nel suo potenziale effetto magico. Ma è davvero così? Con Borden che va via portando con sè la figlia, e il volto di Cutter sullo schermo i dubbi si fanno pressanti. Siamo davvero disposti a rinunciare al prestigio ora che sappiamo il sacrificio che comporta? La tecnologia di Tesla stava all'illusionismo come i sempre più innovativi innesti tecnologici stanno al cinema di oggi. Ma resta pur sempre il fatto che pur non essendoci l'illusione, una volta scoperto che il trasporto umano è realmente possibile, il piacere della visione rimane. E proprio la duplicazione e l'eterno modificarsi del trucco divengono la via di salvezza dell'illusione, il motivo per cui Borden può prendere per mano la figlia e continuare la propria vita. Così la riproduzione è nell'essenza del cinema, garantita nel perpetuo arricchimento dell'illusione primigenia.
Il prestigio si realizza con la morte di una parte del sè che si perde nel momento stesso in cui l'illusione trionfa. Ed il sacrificio per lo spettatore è la rinuncia a quella parte razionale in lotta con la necessità infantile di lasciarsi illudere. Ma è un sacrificio senza dolore perchè, più forte, resta la meraviglia del prestigio.




RICETTA.
Mi è giunta richiesta di dare spazio a ricette moderatamente caloriche. Questa volta, dunque, frenerò il desiderio di proporre un cibo che, per qualche oscuro motivo, ben si accordi a concetti quali l'illusionismo, la magia, il 1800 e consiglierò dei biscottini da accompagnare ad un buon the londinese.
BISCOTTI ALL'ANICE
1 tazza di infuso all'anice
50g uva passa
400g farina integrale
1 uovo
20g olio d'oliva
3 cucchiai di miele

Preparate l'infuso all'anice. Mettete in ammollo in acqua tiepida l'uvetta per mezz'ora. Disponete la farina su una spianatoia con al centro l'olio, il miele e l'uovo. Impastate aggiungendo l'infuso all'anice poco per volta. Dopo 5-10 minuti di impasto energico, scolate l'uvetta, frullatela ed aggiungetela al tutto. Lasciate riposare mezz'ora dopodichè stendete una sfoglia di 3-4mm di spessore. Ritagliate i biscotti nelle forme che preferite, infornate su di una teglia unta d'olio e infarinata per 20minuti in forno preriscaldato a 200°.

http://www.adieta.it/

martedì 12 ottobre 2010

THE TOWN

Ben Affleck, dopo Gone, Baby Gone (2007), toena alla regia. Ancora una volta trae spunto da un'opera letteraria (Il Principe dei Ladri, di C.Hogan) ed ancora una volta si misura con la sua città, Boston (come era accaduto con Will-Haunting, Genio Ribelle di cui fu sceneggiatore).

Doug McRay (Ben Affleck) vive a Charlestown, periferia di Boston, luogo dal primato incontrastato per numero di rapine in banca. Come per molti altri nel suo quartiere, Doug si trova implicato in vicende ed obblighi malavitosi che si tramandano da generazioni, con tutto il sapere che può essere impartito dall'esperienza. Un padre condannato all'ergastolo per furto aggravato, una madre sparita nel nulla parecchi anni prima, amici poco raccomandabili e con tendenze omicide. Qualcosa sembra cambiare con l'arrivo di Claire (Rebecca Hall) che risveglierà in Doug la speranza di un riscatto.

Ben Affleck è molto convincente come regista. Si scrolla di dosso la solita aria da bamboccione impacciato dando eccellente prova di sé.
The Town colpisce per la sua misura. Affleck decide di seguire il genere thriller-noir e lo porta a compimento, senza sbavature nè pretese autoriali. Gestisce la storia, raccontata nel libro di C. Hogan (Il Principe dei Ladri), trattandola con rispetto reverenziale, senza voler strafare nella ricercatezza stilistica.

Charlestown è dipinta come un luogo ingombrante -le scene si svolgono in maggioranza in esterni- e senza via di scampo, tanto che gli inseguimenti a perdifiato percorrono strade anguste che si risolvono in percorsi circolari o ellittici. Il colpo definitivo, nelle ultime scene, sembra non risolversi mai in un epilogo, dando alle strade un potere centripeto, senza scampo appunto.

In questa misurata ricerca di equilibrio stilistico giocano un ruolo fondamentale gli attori. Tutti impegnati a fare della città l'elemento principale, appaiono e scompaiono nei loro ruoli per la giusta manciata di minuti necessaria a mantenere sempre vivo l'interesse e l'attesa del momento seguente. L'ingenua Claire spiega il suo rapporto sofferto con le giornate di sole, in opposizione /legame all'oscurità onnipresente delle scene in cui compare l'altro personaggio femminile, Krista (Blake Lively). Jem (Jeremy Renner) è l'amico di sempre, anche lui imprigionato in un destino soffocante che sfoga nel sadismo; tutti i personaggi sono legati da relazioni ambigue, mai banalizzate come buone o cattive, sempre intriganti.

Per quanto riguarda se stesso, Ben Affleck riesce a mettere in secondo piano anche il proprio ruolo, nonostante sia il protagonista. Più espressivo che loquace, il personaggio di Doug è spaesante come la sua città. Compresso tra una fisicità minacciosa da giocatore di hockey ed un'espressione di muto dolore, è perfetto nel cadenzare i toni che si alternano per tutta la durata del film.

RICETTA.
Una ricetta che resti impressa al palato come il dorso possente e gli addominali perfetti di Ben Affleck restano impressi allo sguardo (mi scusino i lettori uomini per la divagazione femminea)?!? Deve essere decisa ma allo stesso tempo impalpabile come un desiderio.


NUVOLE DI PARMIGIANO
225ml latte
110g margarina

125g farina

4 uova

150g parmigiano reggiano
salsa ai 4 formaggi per accompagnare
In una pentola sufficientemente capiente portate ad ebollizione il latte e la margarina. Abbassate la fiamma ed unite poco a poco la farina setacciata mescolando energicamente con una frusta. Otterrete così una crema liscia e, possibilmente, senza grumi. Togliete dal fuoco ed aggiungete le uova e il parmigiano. Continuate a mescolare con energia fino ad ottenere un composto omogeneo. Preriscaldate il forno a 190°, imburrate una teglia e versate delle piccole quantità di impasto con un cucchiaio. Fate attenzione a distanziarle sufficientemente tra loro in modo che non si attacchino tra loro durante la cottura. Infornate per circa 15 minuti, fino a doratura.
Servire caldi accompagnati dalla salsa (io la faccio sciogliendo a bagnomaria nel latte, provola dolce, gorgonzola, un pezzo di parmigiano, emmenthal ed una piccola quantità di burro).

http://www.ricetteamericane.com

INCEPTION, I LABIRINTI DELLA MENTE...

Dom Cobb (Leonardo DiCaprio) è un maestro dell'estrazione: entra nella mente delle persone dormienti per rubarne i segreti. Ma la missione decisiva a segnare una svolta radicale nella sua vita sarà quella di compiere il procedimento inverso, impiantando un'idea anzichè estrarla. L'impresa porterà Cobb a confrontarsi in primo luogo con se stesso, esponendolo a pericoli estremi che hanno a che fare con il suo passato.

Il sogno è un mondo in cui cercare rifugio, un mondo che dapprima diviene droga, poi necessario alla sopravvivenza. L'euforia chimica da illusione, già sperimentata in film come Existenz (D. Cronenberg, 1999) o Strange Days (K. Bigelow, 1995), è rintracciabile in ogni insenatura della civiltà contemporanea sotto forma di droghe digitali come second life, di dipendenze informatiche dai social network, di un interesse ossessivo per i reality show. E Chistopher Nolan ne è consapevole, e dirige il suo film con precisione matematica, calibrando ogni pezzo e calcolando ogni dettaglio, tutto su un sostrato di apparente squilibrio temporale.

Ed i sogni di Nolan prendono spunto dal cinema (i Bond Movies; Kubrick...) e dall'arte (il surrealismo di Escher e Dalì) e all'arte ritornano come unica certezza di una realtà esterna nelle note di Rien de Rien di Edith Piaf; per nascere hanno bisogno di un architetto, di un chimico, di un falsario. Ogni minimo dettaglio è progettato ed impresso sulla memoria collettiva del pubblico. Elementi riconoscibili, invenzioni fantastiche e quant'altro contribuiscono a gettare lo spettatore in uno stato di trance che del sogno riprende i meccanismi, confondendolo ed imprigionandolo. Il regista rifiuta l'uso del digitale e del 3D proprio per rendere il delirio visivo ancora più reale. E ci si trova catapultati a Parigi, Tokio, Los Angeles, in Canada, in Marocco tra luoghi già visti e percezioni distorte ed inquietanti, proprio come nei sogni.

Arianna (Ellen Page) srotola il filo all'interno del labirinto, e Teseo è lo spettatore stesso. Cobb (Leonardo DiCaprio) crea il suo labirinto dal quale non vuol essere salvato, lui è il minotauro che non è consapevole della propria voracità. Crea una prigione attorno a sè nella quale attrae gli altri.
Muovendosi nella direzione già tracciata da Shutter Island, in un viaggio che lo conduce sempre più verso le profondità indistinte dei sentimenti e della mente, DiCaprio perde un pò di forza nel reinterpretare conflitti così vicini ma emerge ugualmente, sostenuto da un cast all'altezza del compito.

Come un odierno Méliès, Nolan accompagna lo spettatore sulla soglia dei suoi mondi, lo tiene per mano per poi spingerlo con violenza oltre il confine con l'immaginario. Perchè l'idea è un virus impossibile da estirpare, e cresce al di fuori della mente, costruisce mondi ed infetta tutto ciò che conosciamo. Il virus di Cobb è Mal (Marion Cotillard). Come in Eternal Sunshine (vedi http://unfilmperdessert.blogspot.com/2010/07/infinita-letizia-della-mente-candida.html) la mente di Cobb è infetta dal senso di colpa, dalla perdita insopprimibile di qualcuno che neanche lui può ricreare. Come lui stesso confida al simulacro di sua moglie, l'unica creazione che gli è possibile è una brutta copia, una Mal distorta e costruita sui sensi di colpa e il dolore. Così, sul finale del film appare del tutto superfluo interrogarsi sulla dicotomia realtà/sogno. Non occorre sapere se la trottola cadrà o girerà in eterno perchè in fondo la realtà deve avere la sicurezza di un rifugio, e non c'è rifugio in cui non trovi posto il sogno. E il sogno, l'idea, è un virus inestirpabile.



RICETTA
Non so perchè, ma guardando il film, la prima cosa che ha colpito la mia attenzione è stata la scelta del nome Arianna per l'architetto del labirinto da impiantare nella mente di Fischer (Cillian Murphy). Questo particolare ha evidentemente richiamato alla mia mente le letture intorno alla mitologia greca che tanto mi hanno appassionata. Credo che sia lo spunto giusto per poter individuare una ricetta che completi questo film. Ovviamente non si tratterà di cucinare la carne di giovani donne e di sette giovani uomini ateniesi immedesimandoci nei panni del minotauro. Ma, ad affascinarmi, da sempre della mitologia, è stata la particolare attenzione riposta nella descrizione e nella ricerca dei piaceri. Quindi, la ricetta di oggi prevede un succulento dolce di origine greca che ho trovato su http://www.ricettepercucinare.com


PICCOLI CAKE ALLO ZENZERO CON SALSEdosi per 1 persona:
Per I Cake
100 gBurro,
120 g Zucchero A Velo,
80g Farina,
40g Cioccolato Fondente,
30g Fecola Di Patate,
20 g Zenzero Fresco Grattugiato,
1 Uovo,
3 Tuorli D'uovo,
1 Cucchiaino Lievito Per Dolci,
Burro E Farina Per Gli Stampini,
Scaglie Di Mandorle E Panna Per Decorare,
Per La Salsa Al Cioccolato
100 g Zucchero,
100 g Cioccolato Fondente,
Per La Salsa Al Mango
150 g Polpa Di Mango
100 g Zucchero

Per preparare i cake, montate il burro con 100 g di zucchero a velo, lavorando con una frusta o con lo sbattitore elettrico, fino a ottenere un composto omogeneo e cremoso. Sempre lavorando, incorporate quindi lo zenzero grattugiato, l'uovo, i tuorli uno alla volta, il cioccolato fuso, freddo e infine la farina setacciata insieme con la fecola e un cucchiaino di lievito. Imburrate e infarinate 12 stampini per creme caramel, riempiteli fino a due terzi con l'impasto preparato, distribuendolo equamente, quindi infornateli a 170 gradi per 25 minuti. Preparate intanto la salsa al cioccolato: fate bollire per 2 minuti 100 g d'acqua con lo zucchero, poi aggiungete il cioccolato fondente tagliuzzato e, mescolando, lasciatelo sciogliere in modo da ottenere una salsina cremosa. Per la salsa al mango, invece, sarà sufficiente frullare la polpa del frutto con lo zucchero. Sfornate i cake allo zenzero, sformateli, disponeteli nei piattini da porzione, spolverizzateli di zucchero a velo e serviteli tiepidi, accompagnati con una cucchiaiata di ciascuna salsina, un ciuffo di panna montata, scagliette di mandorle e, volendo, anche guarnizioni di cioccolato.

lunedì 11 ottobre 2010

TUTTA LA VITA DAVANTI


Marta (Isabella Ragonese), laureata in filosofia teoretica con lode, è in cerca di lavoro. Quando nessuno sembra volerla accogliere, una bambina la sceglie affinchè sia la sua babysitter. E' la figlia di Sonia (Micaela Ramazzotti), ragazza madre ingenua e svampita che, a sua volta, porta Marta nel call center in cui lavora. Inizia la sua esperienza lavorativa, abbagliante di promesse e lustrini dietro cui si nascondono ben altre verità.

Ancora una volta Paolo Virzì volge un sorriso alle classi più indifese della nostra civiltà. I giovani sognatori, superstiti in un luogo che non gli riserva alcuno spazio nè tantomeno dei privilegi. La protagonista nasce da una storia reale cui il film si ispira (il libro della blogger Michela Murgia, Il Mondo Deve Sapere), ma tra le mani di Virzì e attraverso la penna dello sceneggiatore Francesco Bruni si riserva di giocare sull'effetto di incredulità che può derivarne.

Il call center è un teatrino dove le gerarchie ed i ruoli sono modellati sui reality show. Vince chi imbroglia più gente possibile, tutto rigorosamente col sorriso sulle labbra, pena l'umiliazione pubblica. Ed ogni illusione, ogni ambizione viene scarnificata e scimmiottata. Persino i nobili intenti del sindacalista Giorgio Conforti (Valerio Mastandrea) saranno risolti in una recita a teatro per una vittima sacrificale in cambio.
Ogni singolo personaggio emerge dalla coralità in tutta la sua più struggente, feroce, disperata umanità. Attori di un mondo che li vuole in campo, totalmente, senza le quinte teatrali nè una scenografia dietro cui rifugiarsi, sono personaggi sfaccettati e convincenti.

"Tutta la vita davanti", e dietro restano gli insegnanti, vecchie cariatidi che stazionano alle cattedre come contenitori di un sapere ammuffito e autonomo. Marta non è il punto di arrivo delle lezioni che le sono state impartite, ma il veicolo, l'ambasciatore che dovrà percorrere il viaggio affinchè un buon ascoltatore possa prendere il messaggio e dargli nuova vita. E sarà Lara, la bambina, il suo ascoltatore. Perchè, sebbene si resti vittime di una cultura mediatica fagocitante e abbrutente, non tutto è perduto finchè c'è ancora qualcuno che possa insegnare qualcosa.


RICETTA.
Oltre a gettare lo spettatore in uno sconforto non trascurabile, il film parla alla fauna studentesca divisa a metà tra i rimpianti e le speranze. La ricetta ideale sarebbe la cura all'Ovosodo che non va nè su nè giù, ma la ricetta concreta risponde al motto "mangia che ti passa". Quindi, prepariamo qualcosa di sufficientemente consolatorio da non dover rimuginare ancora sulle scarse prospettive lavorative che angustiano noi studenti e facciamo del nostro meglio per quel che ci è possibile. In questo caso, preparando una soddisfacente
TORTA MILLEFOGLIE AL CIOCCOLATO BIANCO
ingredienti
Per la sfoglia:
300 gr di farina
300 gr di burro
acqua
sale
zucchero q.b.
Per la crema:
550 gr di cioccolato bianco
1 bicchierino di latte
450 ml di panna da montare
100 gr di mandorle a scaglie
2 cucchiai di marmellata di fragole

Preparate una pasta sfoglia mischiando la farina, il burro, acqua, sale e zucchero. Ripiegate più volte la sfoglia su se stessa, poi lasciate riposare mezz'oretta. Tagliatela in cinque quadrati molto sottili e mettete in forno già caldo alla temperatura di 180° per 20 minuti, dopo averli infarinati e punzecchiati con una forchetta. A cottura ultimata lasciate raffreddare i dischi di pasta sfoglia e con un coltello affilato pareggiateli in modo da renderli rotondi. Mettete in una ciotola il cioccolato a pezzetti, aggiungete il latte e sciogliete a bagnomaria, quindi lasciate raffreddare. Montate la panna e incorporatela al composto di cioccolato. Stendete questa crema al cioccolato bianco su un disco di sfoglia. Sovrapponete un altro disco, stendete ancora un po' di crema in modo uniforme. Appoggiatevi il terzo disco e con la crema rimasta, coprite la superficie e il bordo laterale della torta, infine fate aderire al bordo le mandorle a scaglie. Per decorare sciogliete la marmellata a bagnomaria e con una siringa per dolci disegnate sulla superficie della torta sei cerchi concentrici. Mettete al centro una ciliegia candita, decorando con le scaglie di mandorle.

Potete trovare questa ed altre varianti della ricetta su http://www.sottocoperta.net

domenica 3 ottobre 2010

MANGIA, PREGA, AMA (R. Murphy, 2010)

Liz (Julia Roberts) ha tutto: un marito che la ama, una bella casa a New York, un lavoro emozionante. Ma un giorno si ritrova inginocchiata sul pavimento del suo bagno, piangente ed implorante Dio. Divorzia dal marito e decide di intraprendere un viaggio che la porterà in Italia, in India, in Indonesia.

E' pressochè impossibile parlare di Mangia, Prega, Ama senza tener conto del precedente letterario. Il bestseller autobiografico di Elisabeth Gilbert gode di una fluidità e di una ricchezza che nel film non sono neanche lontanamente sfiorate. Tuttavia lo sforzo da fare è proprio di tener conto dell'opera cinematografica in sé.

Già dalle prime scene si ha l'impressione di assistere ad una stilizzazione eccessiva dei caratteri dei personaggi. Billy Crudup, nei panni del marito di Liz, è una sorta di bambinone inconsapevole che mal si accorda all'eleganza della compagna. Il regista rende facile la comprensione del perchè la donna si senta insoddisfatta, riducendo ad icona tutti i dubbi esistenziali, la depressione ed il senso di colpa che (nel libro) precedono e seguono il divorzio.

Liz decide di partire per un viaggio che verterà verso la ricerca del piacere principalmente gastronomico, dunque fisico, in Italia; spirituale in India ed, infine, in Indonesia, tenterà di conciliare le due esperienze in virtù di un ritrovato equilibrio. Le aspettative sono esaltanti se non fosse che l'Italia, in particolare Roma, perde ogni nota di fascino in una rappresentazione da cartolina (con tutta la staticità e l'estetismo decadente delle cartoline) sul cui sfondo si muove un popolo caciarone e nullafacente. La famiglia è un valore stereotipato e retrogrado che non accetta il divorzio e resta un lido sicuro cui approdare per il pranzo della domenica. I "maschi" italiani inseguono le turiste gridando a' bbona! E, nello sfacelo più totale, l'Italiano medio ama affermare Qua viviamo per il "dolce far niente", il cibo ed il sesso allegro.

In India la protagonista attraversa in macchina, intimorita, una strada affollatissima e povera per poi approdare in un ashram più simile ad una comunità hippy (come ha giustamente notato F. Fiorentino in una recensione del film) che ad un luogo di preghiere. La meditazione si risolve in infiniti interminabili promemoria sul perchè si dovrebbe meditare, una sorta di memento mori buttato lì per caso ad intervalli regolari. E tutto il tormento interiore di Richard il texano (Richard Jenkins) è raccontato in qualche attimo di autocommiserazione.

Dulcis in fundo, a Bali la protagonista, ormai in astinenza sessuale da almeno otto mesi, trova un luogo incantato dove gli inviti a "godersela" sono diversi e provengono dalle più svariate fonti. Sarà un irreale Javier Bardem, (troppo bello, troppo buono, troppo dolce, troppo poco brasiliano nel doppiaggio italiano degno di nota) a farla vacillare nel suo ipotetico equilibrio.

Tirando le somme, si ha l'impressione di assistere ad un film troppo lungo (133') ma che fatica a conferire al racconto una durata temporale credibile. Mi spiego. Il tempo sembra sospeso in un limbo fatto di luoghi comuni, alla ricerca di un appiglio che renda pregnante il lavoro intimo e psicologico intrapreso nelle intenzioni ma per niente avvertito. Ci si lascia assorbire in una sorta di clima vacanziero che mette totalmente da parte le località visitate come possibili espressioni di un sentimento, riducendole a meri riempitivi che giustifichino l'andazzo delle vicende.

Una nota di merito va alla delicatezza con cui Julia Roberts interpreta il ruolo di Liz. Un'altra per Javier Bardem che pronuncia la frase che ogni donna vorrebbe sentire:
Sei sottile ed elegante da lontano, ma da vicino sei morbida e appetitosa.

(Nino Manfredi avrebbe detto: La donna, vestuta adda esse 'na fronna, spogliata adda essere tonna)

RICETTA
Sicuramente ci si potrebbe sfiziare nel prendere spunto dal film per una qualsiasi ricetta italiana. Ma il consiglio più appropriato -a sua volta proposto da mia madre- è quello di annegare in un bel tiramisù. Un dolce italiano, gustoso, che va incontro a tutte le donne disposte a non sentirsi in colpa dopo un'autorevole scorpacciata di calorie, a patto che un novello Javier Bardem possa poi consolarci con una frase smile a quella citata. Dimenticate che Julia Roberts finge di ingrassare (compra solo dei jeans troppo stretti per farcelo credere), e godetevi il dolce.

TIRAMISU'

ingredienti
PER I SAVOIARDI
160g farina
6 tuorli e 4 albumi di uova
130g zucchero

PER LA FARCITURA

500g mascarpone
6 uova
caffè q.b.
cacao in polvere q.b.
150g zucchero semolato


Dividete con attenzione i tuorli delle uova dagli albumi, conservando in una ciotola solo 4 di questi ultimi. Unite 100 gr di zucchero e la vanillina ai tuorli e, con l’aiuto di uno sbattitore elettrico, mescolateli bene fino al totale scioglimento dello zucchero, ottenendo un composto chiaro e spumoso. Ponete i 4 albumi in una ciotola assieme ad un pizzico di sale e montateli a neve ferma, poi aggiungete poco alla volta lo zucchero rimasto, fino ad amalgamarlo perfettamente agli albumi. Incorporate delicatamente e lentamente il composto di albumi a quello di tuorli, poi unite la farina setacciata al composto facendola cadere lentamente, sempre mescolando delicatamente con un cucchiaio di legno, in modo da amalgamarla perfettamente. Al termine otterrete un impasto gonfio e sodo allo stesso tempo, qualità che permetterà ai biscotti di mantenere la caratteristica forma durante la cottura. Foderate la leccarda del forno (o una teglia ) con un foglio di carta forno; riempite una tasca da pasticcere con il composto precedentemente ottenuto e, facendolo uscire da una bocchetta liscia del diametro di circa 1 cm, formate delle strisce lunghe circa 10 cm ben distanziate tra loro.

Preparate il caffè, tanto quanto basta per inzuppare i savoiardi, versatelo in una ciotola (se volete zuccheratelo a piacere) e lasciatelo intiepidire. Montate i tuorli delle uova insieme a metà dello zucchero fino ad ottenere un bel composto chiaro e cremoso. Lavorate poi (non troppo a lungo) il mascarpone con uno sbattitore (o cucchiaio di legno) fino a ottenere una crema senza grumi e unite sempre sbattendo, il composto di uova e zucchero preparato in precedenza. Montate ora gli albumi a neve con un pizzico di sale, aggiungete la restante metà dello zucchero e, con un mestolo di legno, uniteli poco alla volta e delicatamente al composto di mascarpone e tuorli ; avrete ottenuto così la crema del tiramisù. Adagiate in un contenitore i savoiardi e iniziate ad bagnarli col caffè; dovranno essere ben imbevuti ma non completamente zuppi. Ricoprite i savoiardi inzuppati con uno strato di crema a mascarpone livellandolo con una spatolina. Spolverizzate la superficie di cacao amaro in polvere. Disponete poi il secondo strato di savoiardi : se i primi li avete disposti verticalmente, questi ultimi poneteli orizzontalmente (e viceversa) . Ricoprireteli con la restante crema che livellerete, Terminata questa operazione spolverizzate con abbondante cacao amaro la superficie del vostro Tiramisù. Riponete in frigo per qualche ora per far compattare il dolce.

www.giallozafferano.it

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