domenica 30 maggio 2010

Il più bell'omaggio a Dennis Hopper


http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2493143&yy=2010&mm=05&dd=30&title=hopper_fine_proiezione_mai

giovedì 27 maggio 2010

Una cena per Jeremy Irons


Il 14 Aprile scorso ero in trepidazione per la presenza di Jeremy Irons alla nuova edizione di "Viaggio nel cinema americano" a cura di Mario Sesti e Antonio Monda all'Auditorium Parco della Musica di Roma -per ulteriori chiarimenti rimando al post del 14 Aprile scorso.
Ahimè il dio vulcano si era scagliato contro l'attore reo di aver voluto osare contro la potenza del divino. Impossibilitato a partire, l'incontro era stato annullato. Evidentemente per l'invocazione di un qualche deus ex machina in palese ritardo, il 25 Maggio l'evento ha potuto finalmente avere luogo.

E' strano come ci si predisponga con l'animo di una scolaretta impacciata a simili occasioni. Sapevo che sarebbe stato insolito trovarmi di fronte l'attore e la mia immagine di Jeremy Irons allo stesso tempo.
La sala era piena. Le poche poltroncine rosse ancora libere venivano occupate in tutta fretta dai ritardatari mentre le luci cominciavano ad affievolirsi. Buio. Il palco illuminato al centro. Quattro posti liberi sotto i riflettori. Non riuscivo a contenere l'attesa. Entrano gli organizzatori, è questione di attimi, annunciano l'ospite ... eccolo lì. Jeremy Irons.

Elegante, sorride al pubblico, saluta e si accomoda tra i suoi intervistatori. Parla del mestiere dell'attore, non senza ironia. Ha una voce così calda. Brevi sequenze di suoi film vengono proiettate alle sue spalle ed ecco che la magia si ricrea. Vedo costruirsi il mio film con Jeremy Irons. Scrivo sui miei occhi quell'incontro così atteso e lui sorride ad ogni domanda. Un'armonia suadente si articola tra i suoi interventi e le scene che si alternano alle sue spalle.
In fondo il cinema è sempre un trucco. Il suo compito è quello di creare mondi che non esistono e di renderli verosimili
Lo dice a proposito del film Inseparabili (D.Cronenberg, 1988). Parla del suo incontro con "Bob" DeNiro sul set di the Mission (R.Joffè, 1986) e di quanto fosse lento a recitare DeNiro. Parla della loro amicizia nata solo dopo una litigata sul set perchè DeNiro voleva un attore più vecchio nel ruolo assegnato ad Irons. Parla dei suoi studi, dell'esperienza a teatro. Avrei tanto voluto chiedergli che differenza sentiva tra il recitare Shakespeare per il teatro ed il recitarlo per il cinema. Ma il momento delle domande era anche il momento in cui la magia del cinema si stava affievolendo. Le luci accese sulla sala mi ricordavano d'un tratto che non sarei riuscita ad osare tanto. Se mi fossi rivolta direttamente a lui mi sarei messa troppo allo scoperto. Ed è ancora presto per farlo. Un domani, se mai riuscirò a vincere questa strana paura, potrò alzare la mano e rivolgermi direttamente allo" schermo". Mettere alla prova la sua essenza.


Parlando della sua esperienza di doppiaggio de Il Re Leone (R.Allers, 1994) e della sua delusione nel vedere Scar, il personaggio disegnato in base alla sua fisionomia, Mr. Irons ha ricordato che nello stesso periodo i sondaggi gli attribuivano il primato di uomo a cui tutte le donne avrebbero voluto preparare un buon pasto.
Non dico che la cosa calzi a pennello per questo blog, ma quasi. La domanda è: Donne, cosa preparereste se invitaste a cena Jeremy Irons?
Ci vorrebbe qualcosa di raffinato, leggero, gustoso, ma sorprendente. Un pizzico di pepe qua e là per ritmare le papille gustative. Come...

COCKTAIL DI GAMBERI
CREPES AL SALMONE
COZZE ALL'ARANCIA E ZENZERO
INGREDIENTI
per il cocktail
400g di gamberetti freschi
1 lattuga
2 cucchiai di prezzemolo tritato
350g di salsa rosa

Sgusciate e lessate i gamberi in abbondante acqua bollente, leggermente salata, per 2-3 minuti. Lavate la lattuga, tagliatela a striscioline molto sottili e disponetela in coppe da portata. Appena si saranno raffreddati adagiatevi sopra i gamberi. Ed, infine, la salsa ed il prezzemolo. Se la salsa rosa che trovate in commercio non dovesse essere di vostro gradimento, è molto semplice farla a casa. Basta unire maionese e ketchup fino ad ottenere una colorazione rosa tenue. Aggiungete 2 cucchiai di succo di limone ed il gioco è fatto. Sul vostro cocktail starà molto bene anche qualche granello di pepe rosa.
per le crepes

farina, qb.
latte parzialmente scremato, qb
2 uova
200g di salmone affumicato
100g di pomodorini ciliegini
100ml di salsa béchamel
prezzemolo
noce moscata
burro
sale qb

Per la preparazione delle crepes, le dosi cui mi attengo di solito sono: per ogni uovo 2 tazzine da caffè di farina, e 2 tazzine di latte. Un pizzico di sale. Lavorate il composto con uno sbattitore elettrico fino ad ottenere una crema liscia ed omogenea. Su una padella antiaderente non molto grande, leggermente imburrata, versate 3-4 cucchiai di impasto. Appena si staccherà dal fondo della padella, girare la crepe e cuocere dall'altro lato per pochi secondi. Procedete fino a che l'impasto non sarà finito. A parte, in una pentola, fate sciogliere una noce di burro alla quale aggiungerete i pomodorini ed il prezzemolo tritato, lasciandone un pò da parte. Appena si sarà ritirato il sughetto aggiungete il salmone, fatelo cuocere per pochi minuti. In un piatto da portata adagiate una ad una le crepes nelle quali metterete il sughetto al salmone, un cucchiaio di béchamel. Una volta chiuse decoratele con dell'altra salsa béchamel, noce moscata e prezzemolo tritato.
per le cozze
1kg di cozze
1 arancia
zenzero fresco
vino bianco
prezzemolo tritato

Ricavate delle striscioline dalla buccia d'arancia. Spremete il succo. In un tegame capiente ponete le cozze ben lavate e fatele aprire cuocendole con il vino ed il succo d'arancia. Private le cozze della metà del guscio cui non è attaccato il mollusco e tenetele al caldo in un piatto da portata. Nel sughetto aggiungete le strisce di scorza d'arancia, lo zenzero e il prezzemolo.
Fate restringere, adagiatelo sulle cozze e servite caldo.

Bene. Questa è la cena che preparerei se dovessi invitare Jeremy Irons. E il dolce? Bè, il dolce sta a voi deciderlo. Non posso consigliare un dolce mio per il vostro, personale, Jeremy Irons.


Per le ricette si ringrazia www.giallozafferano.it

sabato 22 maggio 2010

A SINGLE MAN


George Falconer (Colin Firth) è un professore di letteratura. Dalla morte di Jim (Matthew Goode) non si è più ripreso. Vive nella casa di vetro, affollata dai ricordi di un passato felice, giornate vuote e faticose. Il film racconta proprio una di queste giornate. Ma la vita può ancora soprprendere.

Esordio alla regia per lo stilista Tom Ford, A Single Man (2009) è l'estenuante tentativo di raccontare un sentimento. Colin Firth, conosciuto per le sue espressioni vaganti tra l'attonito, lo smarrito e l'assente, è adatto al ruolo. Tuttavia la ricercatezza ostentata ed artificiosa di montaggio e fotografia mettono in secondo piano la levità con cui l'attore esprime i suoi stati d'animo. I passaggi cromatici, dal quasi spento all'eccessivamente acceso, descrivono la sua vita , marcando il contrasto tra solitudine meditabonda e scialbe conversazioni col prossimo. Unica nota di merito al film va data alle apparizioni dei possibili seduttori del solitario protagonista. Lo studente Kenny (Nicholas Hoult, ovvero il bambino grassottello di About a boy,2002, trasformatosi in cigno) e Carlos, lo spagnolo pettinato dalla mamma come James Dean, interpretato dal modello Jon Kortajarena. Preziosa è la presenza di Julienne Moore, la sua passione repressa per George si sente più della mancanza di Jim.

Nonostante non sia un attore eccelso, io adoro Colin Firth. Forse perchè ha sempre l'aria di trovarsi sul set per caso. Tuttavia, a chi condivide questo pensiero consiglio di guardare la commedia Un matrimonio all'inglese (S. Elliott, 2008). Una dolcissima commedia "all'inglese" in cui rifulgono Jessica Biel, Kristin Scott Thomas nei panni della suocera altezzosa e spietata, e Colin Firth, l' irresistibile e affascinante suocero. Si tratta di uno dei rari casi in cui il caro Colin sembra trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Per chi non lo ama, dopo aver visto questo film, lo amerà di certo.
Per ovviare alla delusione di A single man ma prepararsi con gioia alla portata aristocratica di Un matrimonio all'inglese la ricetta del giorno prevede


CAPEZZOLI DI VENERE

Ingredienti per 18 cioccolatini
25 gr mandorle

90 ml panna liquida

10 gr burro
vaniglia
½ stecca
150 gr cioccolato bianco+ altri 100-150 gr per copertura
10 gr marzapane

cacao amaro

rum o liquore


Tritare le mandorle con una punta di cucchiaio di zucchero fino a ridurle in polvere.
Mettere in una pentola 150 gr di cioccolato bianco a pezzetti piccoli; in un’altra pentola mettere la panna liquida, il burro e la stecca di vaniglia tagliata a metà. Lasciare bollire.
Togliere la stecca di vaniglia e versare questo composto sui pezzetti di cioccolato, amalgamare bene; aggiungere poi le mandorle tritate e, a piacere, del liquore.
Lasciare raffreddare il composto immergendo la pentola in un recipiente d’acqua fredda fino a quando il composto non si sarà indurito per poterlo lavorare bene con le mani. Nel frattempo sciogliere il restante cioccolato per la copertura e preparare le piccole palline di marzapane mischiandolo a del cacao amaro. Formare con le mani delle palline non più grandi di una noce cercando di dare una forma un po’ a cono.
Lasciare un po’ solidificare in frigo. Immergere ogni cioccolatino nel cioccolato bianco fuso, adagiarli nuovamente su un foglio di carta da forno e poggiarvi nel centro la pallina di marzapane.
Rimettere in frigo a solidificare.
Ovviamente l'immagine di presentazione è tratta dal film Chocolat e li espone nella versione al cioccolato fondente

lunedì 17 maggio 2010

Lourdes



Christine, giovane donna costretta sulla sedia a rotelle, partecipa ad un pellegrinaggio a Lourdes. Parla poco ma sorride spesso. Prima che termini il suo soggiorno, riacquista l’uso degli arti. Di nuovo in grado di camminare ma incerta su quanto ancora accadrà, vive con compostezza l’evento.
Lourdes ( J. Hausner,2009) descrive il “popolo dei credenti” che si muove attorno a Christine come una piccola società. Ognuno mosso dalle proprie motivazioni, quasi tutti rinchiusi nel proprio individualismo e solitudine, partecipa ad una gara a mettersi in mostra, anche di fronte a Dio. Non c’è un cammino verso la luce ma un’arrampicata sociale quasi che Dio non fosse altri che il fantozziano direttore megagalattico cui doversi presentare in tempo per essere graziati. La benedizione si richiede per alzata di mano, il prete dispensa vacui messaggi di speranza. Così il miracolato suscita le invidie degli ancora invalidi, attrazione nel sex symbol di turno. Il miracolato è il manifestarsi del desiderio incarnato ma, come una moda qualunque, nella scala di valori della combriccola occupa il primo posto solo per poco. Presto cede il passo all’attesa di nuovi eventi. Diventato fenomeno, massimo punto di arrivo per ogni aspettativa, deve crollare per rinnovarsi. Consolidarsi vorrebbe dire un’altra noiosa normalità.

I giochi simmetrici delle inquadrature, l’immagine pulita, la ieratica ritualità concorrono a delineare un universo ristretto ed organizzato, dove un evento a sorpresa genera il concatenarsi di reazioni tuttavia prevedibili e scontate.
Dietro tutto ciò, la fede. Cosa sia la fede, inutile chiederlo. Quale sia il rapporto con la fede. E’ un’altra domanda. Solo l’anziana silenziosa compagna di stanza di Christine sembra credere nella possibilità che l’atteso evento si manifesti. Quasi un angelo custode, la donna si prende cura di lei. Gli altri sono a Lourdes perchè sperano in un conforto che li faccia sentire meno soli. Supplicano ossessivamente Dio affinché gli dimostri la propria esistenza. Improvvisano lezioni impossibili da accettare, impossibili da confutare.
E poi c’è il volto della bravissima Sylvie Testud, intrappolato nel tentativo di mostrarsi partecipe, in lotta contro la commiserazione.
In ultimo ci siamo noi, in attesa di sapere cosa accadrà domani.

Abbinare una ricetta ad un film di per sé difficile da commentare mi fa pensare alla proverbiale zappa sui piedi. Tuttavia, non sentendomi investita da santità, il problema persiste. Faccio appello ai ricordi e mi viene in mente di quella volta che, da bambina, dovetti bere l'acqua portata da Lourdes da una zia. Essendo estate piena ed avendo la bottiglietta a forma di "madonnina" percorso un lungo viaggio, l'acqua era decisamente troppo calda. Ricordo che non bevvi acqua fresca per non offendere chi mi aveva porto quel santo dono.
Il problema persiste. Dei biscotti a forma di "madonnine" mi sembrano un pò kitsch. Allora propongo un dolce legato a qualche festività sacra. Il panettone è troppo "nazionale" per interpretare la mia personale esperienza di Lourdes (il film, ed anche mia zia con la bottiglietta). La ricetta che ho in mente è quella della cuzzòla, ai più conosciuta come cuzzupa calabrese.
INGREDIENTI
6 uova
500 gr zucchero
125 ml di latte
250 ml d’olio
1 kg di farina circa
2 e 1/2 bustine di lievito
2 scorze di limone grattugiate
Impastate le uova con lo zucchero in una ciotola, poi aggiungete la scorza di limone grattugiata il latte e l’olio. In una ciotola a parte setacciate insieme il lievito e la farina e gradualmente incorporateli agli altri ingredienti, si procede in questo modo per far venire il composto morbido ma non duro, se il composto richiede più farina potete aggiungerla tranquillamente, ovviamente la resa della farina e delle uova non è mai universale quindi bisogna adattarsi un po’. Fate dei filoncini di impasto e sigillate le estremità. Spennellate con l’uovo sbattuto con un po’ di zucchero e infornate a 200°C per 35 minuti. L'immagine proposta riporta un uovo sodo incastonato che si può scegliere di non mettere. A seconda della zona di provenienza della ricetta, la cuzzòla ha forme e nomi diversi. Sarebbe divertente farne una ricerca.

giovedì 13 maggio 2010

Arrivano i Mostri


Perchè rivedere FRANKENSTEIN di J. Whale? Perchè è molto più che un’icona dell’horror. E’ il film che ha posto le basi per tutte le icone del genere tutt’ora in atto. E soprattutto perchè il mostro di Whale è il Frankenstein per eccellenza, quello che trascina i piedi. Quello che parla per monosillabi. Quello la cui scintilla vitale è data da un fulmine. Quello che fa sorridere perchè ha degli elettrodi nel collo.

Il film, del 1931, ed il suo seguito (La Moglie di Frankenstein, 1935) sono anche tra i motivi per cui quando si nomina Frankenstein, si pensa subito al mostro e mai al creatore ( nel secondo film la creatura viene chiamata col nome del dottore e la cosa sembra non confondere affatto).
Pensandoci bene, chi è Frankenstein? La creatura o il creatore? Il dottore o il mostro?
Quasi a mò di beffa, o di ulteriore tormento per lo scienziato, il mostro innominato, abbandonato dal padre terrorizzato dalla sua stessa opera, assume il nome di chi non ha voluto attribuirgliene uno.

Ma Frankenstein è soprattutto un mostro. Così già nel romanzo di Mary W. Shelley il dottore fugge nel vedere la creatura muoversi. Non perchè sia particolarmente brutta, ma proprio perchè questa si anima, rivelando la sua natura immonda di viva-morta nell’improvvisa aura che rende così perturbante la sua figura. Ma il film non è soltanto spaventoso ( o non lo è affatto, per noi spettatori del duemila), è spesso divertente e triste. La recitazione di B. Karloff è la pietra miliare dell’opera, tanto che la figura del mostro è tuttora la sua immagine per antonomasia, quella a cui tutti noi siamo affezionati come ad un ricordo che c’è sempre stato. Di lui si ride e si prova pietà. Come tutti i mostri è dipinto come un goffo, demente, pericoloso essere così che la sua caccia spietata risulti l’unica soluzione plausibile. Scena ahimé riconoscibile in tanti episodi di linciaggi e cacce all’uomo di cui l’ umanità ha più volte dato esempio.

Ma il mostro è soprattutto il “diverso”, colui che non rientra nei parametri convenzionali di “normalità”. Dunque il mostro non è ontologicamente tale, è un essere costruito come tale. Il mostro è “relativamente” un mostro.
Tuttavia la cinematografia gioca, sommariamente, sulla costruzione di questi esseri partendo dalla violazione delle regole basilari dell’esistenza. Così il mostro spesso nasce per partenogenesi, viene da un altro pianeta, non ha dei genitori, è frutto di unioni miste...
Frankenstein (la creatura) non è cattivo. Nel romanzo è dipinto come un essere dall’animo nobile, le cui profonde sofferenze nascono dal rifiuto e dalla solitudine. Uccide per vendetta, non per il gusto di farlo. Nel film, invece, si comporta come un bambino cui non è stato insegnato nulla. Il suo unico amico è un vecchio cieco che gli insegna a bere, fumare, parlare. Uccide solo se si sente minacciato.

ATTENZIONE: NON LEGGERE QUANTO SEGUE SE NON HAI ANCORA VISTO Moon (D. Jones, 2009).TI ROVINEREI LA SORPRESA!

Cosa succede quando la creatura, invece, non sè consapevole della sua diversità? Quando il rapporto col padre le è negato ma non ne è a conoscenza. E vive delle immagini frammentarie che il suo creatore le ha incollato nella mente? E’ il caso di Moon ( D. Jones, 2009). Il mostro, che è un clone, è relegato sulla luna. Impossibilitato a fuggire, non può ribellarsi.
Se il mostro di Frankenstein suscitava orrore, essendo nelle fattezze brutto e rivoltante, la tecnologia odierna, a quasi duecento anni dalla genesi del mostro shelleyano ha imparato ad aggirare il problema. Il mostro non è più sgraziato e deforme, ma perfetto, anche quando è una macchina (altri esempi sono riscontrabili in A.I., di S. Spielberg, 2001; L’UOMO BICENTENARIO di C. Columbus, 1999). E restiamo sempre commossi dallo spettacolo pietoso che il mostro rifiutato, destinato a morire o, peggio ancora, eterno ci offre. Cosa ci commuove di più? L’egoismo sfrontato e noncurante del creatore, malsanamente ingiusto come solo noi possiamo essere? O l’insopprimibile malinconia, quel sentimentalismo sofferto che scaturisce dalla solitudine del mostro?

Se Frankenstein sembra riprendere la morale della perfettibilità umana di Percy B. Shelley, secondo cui non esiste nell’uomo un’intrinseca propensione al male, solo la solitudine fa degenerare la sua natura e solo il calore della vita sociale esalta in lui le qualità morali. Moon sembra promulgare il contrario. Più volte si accenna al terribile carattere di Sam che, a quanto pare, solo lontano anni luce dalla famiglia ha trovato la redenzione. L’irascibilità e la violenza espresse durante la sua permanenza sulla terra, nei rapporti sociali, si placano sulla luna, in solitudine e meditazione. Così sarebbe se Sam avesse davvero vissuto sulla terra, se le immagini delle fotografie e dei suoi ricordi non fossero che bagliori di una realtà esperibile ma mai avvenuta per lui. La realtà del padre. Forse quell’uomo che Eve, nella videochiamata chiama "papà" e che lui non ha il coraggio di guardare.

Allora, chi vince in questa battaglia? La creatura o il creatore? Soprattutto se si pensa che il clone, molto probabilmente, è stato concepito per "durare" solo tre anni. Ipotesi plausibile se si pensa al disfacimento del "primo Sam" e alle condizioni fisiche in cui versano gli altri Sam del video che Gerty gli mostra. Se dietro la
figura di Frankenstein si cela quella dello schiavo sciocco che si ribella al padrone, gli schiavi del nuovo millennio sono le macchine.

Qualcuno potrebbe obiettare a questa lettura di Moon dichiarando che le evidenti citazioni fantascientifiche (da 2001: Odissea nello spazio a Solaris, fino ad Alien) non lasciano intravedere le sottese reminiscenze horror. Tuttavia, vi invito a rifletterci sù.

Chiudo appellandomi ad una frase che compare in un saggio di P. Tortonese su Frankenstein (il romanzo, 1818) e che trovo particolarmente giusta come morale di entrambi i film.

L'amore distrugge e la conoscenza dispera

(P. Tortonese, La creatura. In Il Romanzo, a cura di F. Moretti)

Per l'occasione ho inventato i PANINI FRANKENSTEIN. Perchè si chiamano così? Oltre ad essere apparentemente brutti, nascono dall'unione di una ricetta già sperimentata con ingredienti trovati in giro per casa.
INGREDIENTI
400g di Farina
1 cubetto di lievito di birra
100g di noci sgusciate
100g di prosciutto cotto
1 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaio raso di sale

acqua e olio q.b.
Setacciate la farina su un piano da lavoro e aggiungete il sale. Riempite un bicchiere di acqua tiepida nel quale scioglierete il lievito e lo zucchero lasciando, poi, riposare per 15 minuti. Procedete con l'impasto di farina, lievito sciolto, 4 cucchiai di olio. Durante la lavorazione è possibile aggiungere dell'altra acqua tiepida, e/o dell'olio fino al raggiungimento della consistenza desiderata. Lavorate energicamente l'impasto per almeno 10 minuti. Riponete il tutto in un recipiente infarinato, coprite con pellicola trasparente e lasciate lievitare per un'ora avvolgendo il tutto in una coperta o tovaglia ripiegata. Quando l'impasto sarà lievitato, stendete grossolanamente la pasta sulla quale spargerete il prosciutto a cubetti e le noci. Lavorate il tutto formando una palla che lascerete riposare altri 20 minuti. Riscaldate il forno a 200°. Dividete la pasta in 2 o più palline, disponetele su una teglia infarinata o su carta da forno. Bagnate leggermente la superficie con dell'acqua, incidete delle croci con un coltello ed infornate per 20-25 minuti.
Il bello dei panini Frankenstein è che la ricetta varia a seconda della mente distorta dello scienziato che si cimenta con la sua creazione. Al prosciutto e noci potreste sostituire pancetta e formaggio, uvetta e olive verdi, pistacchi e mortadella, salame e finocchietto... Saranno anche brutti, ma non lasciamoci ingannare dallo sguardo.

venerdì 7 maggio 2010

Departures



Dopo aver suonato l’inno alla gioia di Beethoven, l’orchestra in cui suona il violoncellista Daigo Kobayashi (Masahiro Motoki ) viene sciolta. Il giovane riflette sulla mediocrità del proprio talento e decide di tornare a vivere nel paese natìo con la moglie. Qui, a causa di un errore di stampa, interpreta male un annuncio di lavoro. Si reca presso l’agenzia convinto che si occupi di viaggi e viene assunto come “tanatoesteta”.

L’errore di stampa stava nell’aver scritto "viaggio” anzichè "ultimo viaggio". E’ la prima cosa che il vecchio Sasaki (Tsutomu Yamazaki) chiarisce a Daigo, quasi a sancire una sorta di proemio al film, specificando che il tema starà in bilico tra vita e morte. La dicotomia "Ultimo viaggio-viaggio" presenta il lavoro del tanatoesteta come qualcosa che agisca non per la morte, ma per la vita. Il compito di Daigo sarà infatti quello di rendere bello il corpo del defunto, donare tutte le cure necessarie affinchè la fatica sia spazzata via dal volto. Accarezzare e lavare il corpo come ultimo supremo atto d’amore, un dono. La morte è, prima di tutto, un altro momento della vita. Solo in questa ottica si potrà dare un senso alla riconciliazione con il padre.

Tuttavia è pur sempre di morte che si parla, e come tutti i temi trattati con incertezza, come fenomeno di abiezione, le persone attorno a Daigo lo esortano ad abbandonare il mestiere, a vergognarsi anche. Almeno fino a che non saranno direttamente coinvolte.
La figura del tanatoesteta nasce dalla tradizione giapponese, tuttora diffusa nei piccoli centri. Il film si dipana tra accordi armonici di musica e minuziosa, articolata gestualità. A garanzia dell’Oscar concessogli sta sicuramente quell’intramontabile fascino dell’ “esotico” che nessuno ha più il coraggio di ammettere (come se fosse retaggio dell’epoca coloniale), motivazione che credo assai plausibile se penso che in concorso per la statuetta dorata c’era anche Valzer con Bashir (A.Folman, 2008).
Departures (Y. Takida, 2008) è un piccolo gioiello, sebbene qualche volta pecchi di ingenuità nel ribadire a lungo un tema quale l’assenza del padre e nel rigirare troppo le dinamiche di coppia dei protagonisti. A parte questo, si resta incantati dagli attimi di poesia visiva, ci si commuove e si sorride. Ai cinefili più arditi (o visionari) verrebbe da riflettere sull’atto di lavorare per consegnare un’ultima bella immagine della persona cara, come all’atto sacro che il cinema compie con la vita. Un’immagine fotogenica dà, a chi la contempla, il potere di sollevarsi dal dolore.

Ne approfitto per riportare una curiosità pubblicata da Paolo Mereghetti come supplemento alla sua recensione su Il Corriere della Sera:
"L' arrivo sugli schermi italiani di questo film è l' atto di nascita di una nuova società di distribuzione, la Tucker Film (dal nome dell' innovativa e rivoluzionaria automobile raccontata in un film da Coppola), nata dagli sforzi congiunti di Cinemazero di Pordenone e del Centro espressioni cinematografiche di Udine".
Spero valga come incentivo per tutti voi amanti del cinema a firmare la petizione che troverete in corrispondenza al link qui in basso. La firma contribuirà nel tentativo di salvare l'International Film Studies Conference e la Spring School di Udine/Gorizia che rischiano di chiudere per macanza di fondi.
http:// www.ipetitions.com / petition/ filmforumcallforhelp

Senza iniziative costruttive e persone dedite agli studi cinematografici non sarebbe mai stato possibile vedere questo ed altri film. Quindi FIRMATE, non costa nulla.

Con questo film consiglio un piatto di Onigiri, alias "le polpette di riso che preparava Marrabbio in Kiss me Licia".
INGREDIENTI
1 tazza di riso giapponese
sale
salmone grigliato
alghe nori

Cuocete il riso almeno un'ora prima. Per il procedimento leggete attentamente le istruzioni riportate sulla confezione.
Appena il riso si sarà raffreddato bagnatevi le mani con dell'acqua leggermente salata. Dividete il riso in 4 palline e compattatele (lo si può avvolgere con della pellicola trasparente per rendere più agevole la lavorazione). In ogni "polpetta" fate un buco nel quale infilerete il salmone precedentemente diviso in 4 parti uguali. Ricoprite con dell'altro riso. Avvolgere le polpette con l'alga interamente o solo al fondo dopo aver dato una forma triangolare al tutto. Consumate subito, altrimenti conservate in frigo in sacchetti di plastica e scaldate prima di consumare.

lunedì 3 maggio 2010

Fantastic Mr. Anderson

Il sig. Fox decide di smettere di fare il ladro di galline per mettere su famiglia. Dopo qualche "anno volpe", divenuto un giornalista poco apprezzato, trasloca con la famiglia in un costoso faggio che offre una stimolante veduta delle tre industrie più produttive del mondo umano. Lo spirito selvaggio della volpe torna a farsi sentire.

Fantastic Mr. Fox (2009)
è una favola che, al contrario di molte sue "colleghe" cinematografiche, non ha paura di affrontare temi forti della vita di ognuno. Le mani di Wes Anderson afferrano il racconto di Roald Dahl e lo condiscono di spezie e profumi cari alla precedente filmografia del regista. Così i simpatici protagonisti vivono aspettative, incomprensioni generazionali, delusioni ed un contrasto insormontabile tra desideri e convenzioni sociali. La vita, dopo tutto.
Nulla sembra impossibile, si dimentica presto che quelli sullo schermo sono dei pupazzi animati. A ricordarci che le aspettative erano di trovarsi di fronte una storia per bambini c'è il pubblico under 12 che assilla di domande il genitore malcapitato.

L'ironia dolceamara di Anderson è sicuramente il tratto qualificante di questa epopea in stop motion, ed è anche quella linea sottile che ne fa un film preferibilmente per adulti. Un pretesto di riflessione che riporta alla mente le espressioni attonite di Bill Murray ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), le sopracciglia aggrottate di Jason Schwartzman ne Il treno per il Darjeeling (2007), per culminare nella carrellata di volti ed umori de I Tenenbaum (2001). Anderson ha il potere di essere sorprendente e familiarmente rassicurante allo stesso tempo. Trasmette allo spettatore un profondo senso di stima offrendoglisi totalmente ma senza spiegarsi, in sordina.
Fantastic Mr. Fox ha il potere di parlare al ladro di galline che è in ognuno di noi. E' d'obbligo una ricetta all'altezza delle volpi più temerarie e selvagge. E questa volta non è un dessert...
POLLO ALL'ARANCIA
ingredienti
un pollo in parti
5-6 arance
vino rosso
olio
sale
pepe

In una padella antiaderente versate un dito d'olio. Salate e pepate il pollo (a scelta lo si può infarinare) e soffriggetelo nell'olio rigirandolo fino ad ottenere una leggera doratura. Aggiungete una quantità di vino sufficiente da immergere il pollo a metà. Lasciate evaporare a fuoco medio. A parte tagliate le bucce delle arance ben lavate in scorzette sottili. Fate attenzione a non includere la parte bianca della buccia poiché renderebbe troppo amara la salsa. Spremete il succo delle arance rimaste. Appena il vino sarà evaporato aggiungete alla cottura il succo e le scorzette. Lasciate cuocere fino a che si sarà formata una crema che servirete con il pollo. Decorate a piacere con spicchi di arance e servite.

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