giovedì 13 maggio 2010

Arrivano i Mostri


Perchè rivedere FRANKENSTEIN di J. Whale? Perchè è molto più che un’icona dell’horror. E’ il film che ha posto le basi per tutte le icone del genere tutt’ora in atto. E soprattutto perchè il mostro di Whale è il Frankenstein per eccellenza, quello che trascina i piedi. Quello che parla per monosillabi. Quello la cui scintilla vitale è data da un fulmine. Quello che fa sorridere perchè ha degli elettrodi nel collo.

Il film, del 1931, ed il suo seguito (La Moglie di Frankenstein, 1935) sono anche tra i motivi per cui quando si nomina Frankenstein, si pensa subito al mostro e mai al creatore ( nel secondo film la creatura viene chiamata col nome del dottore e la cosa sembra non confondere affatto).
Pensandoci bene, chi è Frankenstein? La creatura o il creatore? Il dottore o il mostro?
Quasi a mò di beffa, o di ulteriore tormento per lo scienziato, il mostro innominato, abbandonato dal padre terrorizzato dalla sua stessa opera, assume il nome di chi non ha voluto attribuirgliene uno.

Ma Frankenstein è soprattutto un mostro. Così già nel romanzo di Mary W. Shelley il dottore fugge nel vedere la creatura muoversi. Non perchè sia particolarmente brutta, ma proprio perchè questa si anima, rivelando la sua natura immonda di viva-morta nell’improvvisa aura che rende così perturbante la sua figura. Ma il film non è soltanto spaventoso ( o non lo è affatto, per noi spettatori del duemila), è spesso divertente e triste. La recitazione di B. Karloff è la pietra miliare dell’opera, tanto che la figura del mostro è tuttora la sua immagine per antonomasia, quella a cui tutti noi siamo affezionati come ad un ricordo che c’è sempre stato. Di lui si ride e si prova pietà. Come tutti i mostri è dipinto come un goffo, demente, pericoloso essere così che la sua caccia spietata risulti l’unica soluzione plausibile. Scena ahimé riconoscibile in tanti episodi di linciaggi e cacce all’uomo di cui l’ umanità ha più volte dato esempio.

Ma il mostro è soprattutto il “diverso”, colui che non rientra nei parametri convenzionali di “normalità”. Dunque il mostro non è ontologicamente tale, è un essere costruito come tale. Il mostro è “relativamente” un mostro.
Tuttavia la cinematografia gioca, sommariamente, sulla costruzione di questi esseri partendo dalla violazione delle regole basilari dell’esistenza. Così il mostro spesso nasce per partenogenesi, viene da un altro pianeta, non ha dei genitori, è frutto di unioni miste...
Frankenstein (la creatura) non è cattivo. Nel romanzo è dipinto come un essere dall’animo nobile, le cui profonde sofferenze nascono dal rifiuto e dalla solitudine. Uccide per vendetta, non per il gusto di farlo. Nel film, invece, si comporta come un bambino cui non è stato insegnato nulla. Il suo unico amico è un vecchio cieco che gli insegna a bere, fumare, parlare. Uccide solo se si sente minacciato.

ATTENZIONE: NON LEGGERE QUANTO SEGUE SE NON HAI ANCORA VISTO Moon (D. Jones, 2009).TI ROVINEREI LA SORPRESA!

Cosa succede quando la creatura, invece, non sè consapevole della sua diversità? Quando il rapporto col padre le è negato ma non ne è a conoscenza. E vive delle immagini frammentarie che il suo creatore le ha incollato nella mente? E’ il caso di Moon ( D. Jones, 2009). Il mostro, che è un clone, è relegato sulla luna. Impossibilitato a fuggire, non può ribellarsi.
Se il mostro di Frankenstein suscitava orrore, essendo nelle fattezze brutto e rivoltante, la tecnologia odierna, a quasi duecento anni dalla genesi del mostro shelleyano ha imparato ad aggirare il problema. Il mostro non è più sgraziato e deforme, ma perfetto, anche quando è una macchina (altri esempi sono riscontrabili in A.I., di S. Spielberg, 2001; L’UOMO BICENTENARIO di C. Columbus, 1999). E restiamo sempre commossi dallo spettacolo pietoso che il mostro rifiutato, destinato a morire o, peggio ancora, eterno ci offre. Cosa ci commuove di più? L’egoismo sfrontato e noncurante del creatore, malsanamente ingiusto come solo noi possiamo essere? O l’insopprimibile malinconia, quel sentimentalismo sofferto che scaturisce dalla solitudine del mostro?

Se Frankenstein sembra riprendere la morale della perfettibilità umana di Percy B. Shelley, secondo cui non esiste nell’uomo un’intrinseca propensione al male, solo la solitudine fa degenerare la sua natura e solo il calore della vita sociale esalta in lui le qualità morali. Moon sembra promulgare il contrario. Più volte si accenna al terribile carattere di Sam che, a quanto pare, solo lontano anni luce dalla famiglia ha trovato la redenzione. L’irascibilità e la violenza espresse durante la sua permanenza sulla terra, nei rapporti sociali, si placano sulla luna, in solitudine e meditazione. Così sarebbe se Sam avesse davvero vissuto sulla terra, se le immagini delle fotografie e dei suoi ricordi non fossero che bagliori di una realtà esperibile ma mai avvenuta per lui. La realtà del padre. Forse quell’uomo che Eve, nella videochiamata chiama "papà" e che lui non ha il coraggio di guardare.

Allora, chi vince in questa battaglia? La creatura o il creatore? Soprattutto se si pensa che il clone, molto probabilmente, è stato concepito per "durare" solo tre anni. Ipotesi plausibile se si pensa al disfacimento del "primo Sam" e alle condizioni fisiche in cui versano gli altri Sam del video che Gerty gli mostra. Se dietro la
figura di Frankenstein si cela quella dello schiavo sciocco che si ribella al padrone, gli schiavi del nuovo millennio sono le macchine.

Qualcuno potrebbe obiettare a questa lettura di Moon dichiarando che le evidenti citazioni fantascientifiche (da 2001: Odissea nello spazio a Solaris, fino ad Alien) non lasciano intravedere le sottese reminiscenze horror. Tuttavia, vi invito a rifletterci sù.

Chiudo appellandomi ad una frase che compare in un saggio di P. Tortonese su Frankenstein (il romanzo, 1818) e che trovo particolarmente giusta come morale di entrambi i film.

L'amore distrugge e la conoscenza dispera

(P. Tortonese, La creatura. In Il Romanzo, a cura di F. Moretti)

Per l'occasione ho inventato i PANINI FRANKENSTEIN. Perchè si chiamano così? Oltre ad essere apparentemente brutti, nascono dall'unione di una ricetta già sperimentata con ingredienti trovati in giro per casa.
INGREDIENTI
400g di Farina
1 cubetto di lievito di birra
100g di noci sgusciate
100g di prosciutto cotto
1 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaio raso di sale

acqua e olio q.b.
Setacciate la farina su un piano da lavoro e aggiungete il sale. Riempite un bicchiere di acqua tiepida nel quale scioglierete il lievito e lo zucchero lasciando, poi, riposare per 15 minuti. Procedete con l'impasto di farina, lievito sciolto, 4 cucchiai di olio. Durante la lavorazione è possibile aggiungere dell'altra acqua tiepida, e/o dell'olio fino al raggiungimento della consistenza desiderata. Lavorate energicamente l'impasto per almeno 10 minuti. Riponete il tutto in un recipiente infarinato, coprite con pellicola trasparente e lasciate lievitare per un'ora avvolgendo il tutto in una coperta o tovaglia ripiegata. Quando l'impasto sarà lievitato, stendete grossolanamente la pasta sulla quale spargerete il prosciutto a cubetti e le noci. Lavorate il tutto formando una palla che lascerete riposare altri 20 minuti. Riscaldate il forno a 200°. Dividete la pasta in 2 o più palline, disponetele su una teglia infarinata o su carta da forno. Bagnate leggermente la superficie con dell'acqua, incidete delle croci con un coltello ed infornate per 20-25 minuti.
Il bello dei panini Frankenstein è che la ricetta varia a seconda della mente distorta dello scienziato che si cimenta con la sua creazione. Al prosciutto e noci potreste sostituire pancetta e formaggio, uvetta e olive verdi, pistacchi e mortadella, salame e finocchietto... Saranno anche brutti, ma non lasciamoci ingannare dallo sguardo.

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