venerdì 24 dicembre 2010

THE ROAD (J. Hillcoat, 2009)

In un futuro apocalittico in cui la natura muore di un'inesorabile glaciazione, un padre (Viggo Mortensen) ed un figlio (Kodi Smit-McPhee) viaggiano a piedi verso Sud. Nella speranza di trovare un clima più mite, combattono per sopravvivere alla fame e agli attacchi dei cannibali.

Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, The Road si presenta come un horror. Definito troppo deprimente per essere distribuito, approda nelle sale italiane con notevole ritardo. Attinge alle più fondate paure ecologiste per emergere in un esperimento da incubo. Sarebbe tutto potenzialmente già visto, se non fosse che John Hillcoat rinuncia deliberatamente ai ritmi incalzanti dell'horror, ad una colonna sonora ingombrante, a donne prosperose che corrono a perdifiato con la maglietta strappata per cogliere il pretesto del "genere", ribaltarlo, e rendere il tutto ancora più desolante ed agorafobico.

Un incipit enigmatico presagisce la catastrofe, senza spiegare le cause né le modalità in cui la distruzione ha avuto inizio. La voce del protagonista accenna all'orologio fermatosi dopo una luce nel cielo. E poi, l'incubo. Un padre ed un figlio in cammino. Abbandonati in uno spazio senza orizzonti, dove le tracce dei ricordi appaiono come unico elemento di punteggiatura (splendidi i flash-back in cui appare Charlize Theron nel ruolo della madre suicida), quando sembra che anche la macchina da presa si sia dimenticata di loro. Il tempo e lo spazio hanno confini impercettibili, ed il mondo dipinto non ha alcuna regola. I vivi sono morti, ed i morti sono il frammento della vita luminosa che c'era una volta.

Viggo Mortensen è il padre. Provato e credibile nella metamorfosi fisica e nell'espressività rude e commovente, protegge il figlio nell'apparente assurdità di poterlo trarre in salvo. Sebbene sembri incapace di provare ancora dei sentimenti, vive una religiosità pudica e soffocata. Sembra voler dichiarare che in un mondo che ancora può partorire un essere puro come suo figlio, non può non esserci la speranza di trovare la salvezza.

Sicuramente lo si può etichettare nel filone del "post-apocalittico", ma a rendere spaventosamente reale questo film è l'assenza di filtri per edulcorarne l'asprezza. Il padre chiede scusa al figlio perchè il mare non è blu ma grigio, consapevole della colpa dell'uomo sulla natura, impossibile da espiare. Un horror che ha le sue radici nelle colpe dell'umanità, e che non si premura affatto di falsare i tempi della narrazione in una struttura che parla al tempo reale su cui sta nascendo la distruzione.

RICETTA
Dimentichiamo che si tratti di un film apocalittico in cui la ricerca di cibo, calore e benzina sono il motore principale. Stasera concentriamoci su qualcosa di completamente diverso. E' la Vigilia di Natale. Che siate cattolici o meno, le occasioni per ritrovarsi con amici e parenti sono sempre ben accette. Per cui, dimentichiamo le tragedie e concediamoci un dolce natalizio calabrese (non è la ricetta che si tramanda in casa mia, perchè è un "segreto", ma va bene lo stesso!).
I CANNARICOLI
1 tazza di olio extravergine d'oliva
1/2 tazza di vino bianco
1/2 tazza di zucchero
1 pizzico di cannella
farina bianca quanto basta
miele un vasetto

Portare ad ebollizione tutti gli ingredienti tranne la farina.Lasciare poi intiepidire ed aggiungere farina quanto basta a formare un impasto abbastanza solido da poter essere steso con le mani a bastoncini. Tagliare come per fare degli gnocchi, un pò più grandi e cavare con le dita utilizzando come supporto il fondo di una cesta di vimini in modo da lasciarne impresso sul biscotto il motivo decorativo.Friggere in abbondante olio ed una volta scolati, confettarli uno ad uno nel miele appena scaldato.Per la confettura dei cannaricoli tradizionalmente utilizziamo oltre al miele di api anche il miele di fichi ovvero una gelatina ottenuta dai frutti freschi preparata in estate e preservata fino a Natale proprio per i cannaricoli.

giovedì 23 dicembre 2010

STANNO TUTTI BENE (K.Jones, 2009)

Frank Goode (Robert DeNiro) ha lavorato tutta la vita come operaio nell'istallazione di cavi telefonici, ora è vedovo da pochi mesi. Attende i quattro figli per potersi ritrovare finalmente tutti attorno alla stessa tavola. Ma, uno dopo l'altro, si defilano adducendo motivazioni imbarazzate. Frank vuole assicurarsi che i figli stiano bene e, nonostante la salute non gli consenta di viaggiare in aereo, parte con l'autobus per far visita ad ognuno di loro. Scoprirà di non conoscerli davvero come credeva.

Frank si è giocato la salute per proteggere i fili del telefono. E la metafora dell'uomo garante delle comunicazioni altrui ma incapace di comunicare torna come leit motiv per tutta la narrazione. De Niro fa tenerezza nei panni di un padre che non si arrende alla solitudine. Lontano anni luce dai grandi trascorsi cinematografici, esibisce quella parte di sé che, negli ultimi anni, era emersa soprattutto nei ruoli comici della saga familiare che ha inizio con Ti Presento i miei.

Ben lungi dallo strappare sorrisi e remake del meno conosciuto film di Giuseppe Tornatore, Stanno Tutti Bene, riprende e rielabora il tema del viaggio che, anzichè percorso interiore, diventa una sorta di avventura on the road della terza età in cui il protagonista rischia il tutto per tutto. Stanco e logorato dalla solitudine e dalla malattia, percorre gli States in autobus ed ogni città gli riserva un'accoglienza diversa. A volte scostante, a volte spietata, la città è il muro dietro cui si annida la verità che a lungo tempo è stata celata a Frank.

Padre troppo esigente e protettivo, arriva a dover riconoscere che i suoi bambini sono ormai degli adulti, e a donare un pò di luce alla tragedia incombente interviene un finale conciliante e rassicurante. Attorno ad una tavola imbandita, con un vino molto caro e nuovi membri della famiglia, tutto si risolve con un sorriso.



A condire il tutto, un cast stellare vede nei panni dei rispettivi figli Drew Barrymore, Kate Beckinsale, Sam Rockwell. A dominare è la malinconia, un sentimento misto a tenerezza e pena per il povero, vecchio, Frank. Sentimento troppo pressante perchè del film resti qualcos'altro da ricordare.

RICETTA
Quante volte, guardando film americani, vi siete chiesti "Ma come lo faranno il tacchino ripieno per il giorno del Ringraziamento"? Nel film non poteva mancare l'occasione per ringraziare e riconciliarsi. E poichè il Natale è alle porte e a noi piace tanto importare tradizioni e -soprattutto- pietanze dal resto del mondo, eccovi la ricetta del tacchino.
TACCHINO RIPIENO
un tacchino di taglia media (3-4 kg)
600 g di castagne lesse e pelate
250 g di burro
250 g di pane raffermo sbriciolato
1 cipolla bianca
60 g di uva sultanina
100 g di sedano
sale e pepe
Create un composto piuttosto omogeneo con le castagne lesse e il pane raffermo ridotto in briciole. Tagliate il sedano a tocchetti e la cipolla a fette sottili e fateli saltare nel burro che avrete fatto sciogliere in una padella sufficientemente capiente.Unite verdure e burro fuso al composto di castagne, aggiungete l'uva sultanina e il prezzemolo.Preparate una teglia che possa contenere il tacchino intero e che abbia i bordi abbastanza alti per recuperare i sughi di cottura. Con un po` di burro spalmate ungendo sia le pareti interne che quelle esterne del tacchino e procedete con il riempimento, avendo cura di distribuire in maniera uniforme il ripieno disponendo e compattando il ripieno con le mani.Al termine con dello spago per alimenti e un ago adeguatamente robusto cucite il tacchino per evitare fuoriuscite del ripieno durante la cottura. Prima della cottura il tacchino va accosciato, bisogna legare con dello spago le zampe lungo il petto in modo da tenerlo compatto durante la cottura. Infornate nel forno già  caldo a 180 gradi e predisponete un cucchiaio e un pennello per distribuire sul tacchino il sugo che si formerà .Ripetete l'operazione ogni 15-20 minuti. Punzecchiate le parti più carnose per accertarvi che cuociano.Per i contorni anche qui ci si può sbizzarrire, patate novelle al forno, verdure saltate o per rimanere fedeli alla tradizione americana del mais lesso.
http://www.odealvino.com/

mercoledì 8 dicembre 2010

AMERICAN BEAUTY (S.Mendes, 1999)


Lester Burnham (Kevin Spacey) vive una vita qualunque in una qualunque cittadina americana. Con lui vivono la moglie Carolyn (Annette Bening), agente immobiliare ossessionata dall'ansia del successo, e la figlia adolescente Jane (Thora Birch). La conoscenza di Angela (Mena Suvari) risveglia in Lester desideri sopiti, ed è il primo passo per poter mettere in discussione la propria vita.

Avere successo ha a che fare con il ruolo sociale che si arriva a ricoprire e, prima ancora, con l'educazione in famiglia. Valori che giacciono e si muovono su di un campo minato dall'arrivismo e dall'incomunicabilità. Questo è l'amalgama concettuale che ospita American Beauty. Lungi dall'essere un'analisi cosciente della società americana si trasforma in una riflessione sofferta e meditata sulla fugacità della vita, in tutta la sua grottesca ed inarrivabile poesia. 
Già dal titolo si avverte l'inganno. La "bellezza americana" fa pensare subito ad un ritratto sociale della classe media statunitense, quella stereotipa delle villette a schiera e le ragazze cheerleader. Ma american beauty non è che il nome delle rose ossessivamente coltivate da Carolyn e passionalmente sognate da Lester. Un simbolo, un indice, un'icona. Le rose diventano via via accanimento e classicamente passione; alludono alla presenza -vera o agognata- di Angela; fanno da arredo cromatico alla scenografia.

E dalle rose si parte per perdersi nella riflessione sul tempo. Effimere per eccellenza, come diavolo faranno ad essere così perfette?!? Qual è il loro segreto se non l’effimericità stessa?!? E Carolyn continua a coltivarle ancora e ancora, nell'estenuante tentativo di fare del suo meglio per catturare e preservare lo stato di gioia della perfezione. 

Lester si infatua di Angela: lei incarna la bellezza del germoglio; il "Sabato del Villaggio," il momento delle possibilità prima della fioritura, il desiderio puro prima di averlo perduto.
Ricky (Wes Bentley) riprende tutto, soprattutto ciò che sta per morire. L’infinita bellezza del mondo perituro sfugge nel groviglio di viandanti che popolano la vita. Così arriva a custodire per sé un piccolo sacrario del tempo perduto, non importa che nessuno guarderà mai quelle cassette, si tratta di immagini fraintendibili senza alcun valore al di là del perché siano state immortalate.
Jane è l'adolescente tipica che non trova un posto né un tempo in cui potersi ritrovare, confusa dall'assenza di regole agli antipodi di chi le regole le subisce come il colonnello Fitts (Chris Cooper). 


Il tempo umano naufraga verso la morte. Sembra la più banale delle riflessioni pensare che solo la morte porti un pò di chiarezza, di pace, ed un valore diverso alla vita vissuta o da vivere. Hai mai conosciuto qualcuno che è morto, Jane? Le domanda Ricky. Tra tempi in differita in cui accusare il colpo della pistola e foto in bianco e nero, si accetta con un sorriso malinconico che solo la morte può donare piena consapevolezza della bellezza del tempo in divenire.


RICETTA
DOLCETTI DI PISTACCHIO E ROSE
Per lo sciroppo:
110 g di zucchero
3 cm di stecca di cannella
1 cucchiaino succo di limone
1 cucchiaino acqua di rose 
Per i dolcetti: 
180 g semolino fine
30 g farina bianca
120 g di zucchero
1 cucchiaino lievito per dolci
50 g pistacchi tritati finemente
1, 4 dl di latte
60 g burro fuso

Preparate lo sciroppo con lo zucchero, la stecca di cannella e 1,2 dl di acqua, fate cuocere lo sciroppo per circa dieci minuti. In una terrina mescolate la farina, il semolino, lo zucchero, il lievito, i pistacchi, burro o olio e mescolate vigorosamente per avere un impasto ben amalgamato. Versatelo in una teglia rettangolare all'incirca di 15x20 cm che avrete foderato con carta apposita, livellatelo bene e infornatelo a forno già caldo a 170° per circa una quarantina di minuti. Quando è cotto toglietelo dal forno e versatevi sopra immediatamente lo sciroppo, al quale avrete tolto il pezzo di cannella e aggiunti l'acqua di rose e il succo di limone. Lasciate raffreddare e tagliatelo a rombi, quadrati, triangoli.

martedì 7 dicembre 2010

VIOLA DI MARE (D. Maiorca, 2009)

Angela (Valeria Solarino) e Sara (Isabella Ragonese) sono amiche d'infanzia nella Sicilia di metà Ottocento. La guerra le separerà per poi farle ritrovare da adulte negli stessi luoghi condivisi da bambine. L'amore tra le due, però, dovrà battersi con le convenzioni sociali e, nel caso di Angela, con un padre violento ed autoritario.

L'aspetto più interessante del film sta nell'uso voyeristico della macchina da presa, in modo evidente nelle numerose scene di sesso. Una percezione segreta, rubata, dei corpi scolpiti delle protagoniste è restituita allo sguardo, dove l'ombra si sotituisce alla luce e tenta di proteggerli. Ma diventa aggressiva nelle scene che si svolgono tra le mura domestiche in casa di Angela, dove la stessa ombra arriva a seppellire quel corpo che poco prima aveva accarezzato. Bello anche il contrappunto rock curato da Gianna Nannini.

Qualcuno ha parlato di atmosfere verghiane nella messa in scena della Sicilia risorgimentale tra cielo, mare e miniere di tufo. Ma in rapporto al paragone si nota un'ingenua semplificazione del rischio sociale attorno alla vicenda. Se in casa l'onta può essere taciuta, la si può mascherare, ciò non vale nell'opinione dei vicini. Ne I Malavoglia, ad esempio, il vociare degli abitanti di 'Trezza fa da contraltare perenne alle voci della famiglia. Nel film della Maiorca il ruolo del "sociale" è abbozzato. Probabilmente la regista ha pensato bene di condensare la narrazione attorno alla felicità conquistata delle due amanti, ma le figurine che fanno da sfondo alla vicenda restano poco incisive.


Forse a mancare è la percezione dello scandalo. La bravissima Valeria Solarino fa tutto da sola e ben si destreggia nei panni maschili, preservando il giusto ed intenso grado di ambigua sensualità. Ma l'intensità drammatica si disperde nelle tracce sfuocate e fin troppo ripartite tra un padre eccessivo e a volte poco credibile, una zia silenziosamente misteriosa ma poco presente, una madre eterea e sconvolta, una (ripeto) popolazione inebetita e falsamente coinvolta.

Tratto dal libro Minchia di Re di Giacomo Pilati, il titolo fa riferimento al pesce Viola di Mare, che cambia sesso per amore. Peccato che, prima della didascalia che precede i titoli di coda, nel film non se ne faccia alcuna menzione.

RICETTA
Cercavo una ricetta marinara da proporre in questo contesto, ma che poco avesse a che fare con tradizioni regionali o piatti tipici già acquisiti. Ho trovato qualcosa di molto interessante e probabilmente insolito per la scelta di una particolare qualità di riso.
RISO NERO CON TOTANO E CARCIOFI
180g di riso Selvaggio
180g di totano affumicato
4 carciofi
2 pomodori
100 ml. di brodo vegetale
1 limone
2 scalogni
3 cucchiai d'olio extravergine
prezzemolo
sale e pepe
Immergete il riso per 8 ore in acqua fredda. Una volta ammollato, bollitelo in acqua salta per circa 30 minuti, poi scolatelo al dente. Pulite i carciofi eliminando le spine le foglie esterne e tornite la base con un coltellino. Lasciateli poi in acqua acidulata con limone. Lavate i pomodori, sbollentateli 1 minuto, scolateli in acqua ghiacciata e pelateli. Eliminate i semi e tagliate la polpa a dadini. Tritate finemente gli scalogni e stufateli in padella con olio. Unite i carciofi tagliati a lamelle sottilissime e saltateli 3 minuti con sale, pepe e poco prezzemolo tritato. Aggiungete il totano affumicato tagliato a striscioline e sfumate con il brodo bollente. Unite il pomodoro e per ultimo il riso. Saltate il tutto a fiamma viva, mettete un trito di prezzemolo e la buccia di limone grattugiata.

mercoledì 1 dicembre 2010

SHADOW (F.Zampaglione, 2009)

David (Jake Muxworthy), reduce dalla guerra in Iraq, decide di andare in montagna per dedicare il riposo alla sua passione di biker. In una locanda incontra per la prima volta Angeline (Karina Testa) che difende dalle avances moleste di due cacciatori poco raccomandabili. Per questi ed altri motivi, i due ragazzi saranno letteralmente braccati dai cacciatori, sebbene ben presto scopriranno che la zona della montagna denominata The Shadow, nasconda pericoli ben maggiori.

Contaminazioni à gogo in un horror che strizza l'occhio ai padri italiani del genere.  La figura oblunga di Nuot Arquint risorge come spauracchio dell'espressionismo tedesco. Un mostro interessante, che si vede nei panni della morte (e qui ci sta proprio Il Settimo Sigillo di Bergman con tanto di falce e cappuccio, mentre l'inseguimento in macchina nel buio del bosco ricorda il videoclip dei Radiohead, Karma Police) e riprende le vittime con la cinepresa. Perché per partecipare all'orrore si serve del medium che lo ha veicolato, e ribadisce il concetto nella metafora allusa dell'occhio obbligato a guardare, senza palpebra. Inoltre custodisce una cineteca documentaria sugli abomini dell'umanità che fa dell'immagine cinematografica di repertorio un'icona divistica del male.
I buchi neri della storia siglati sulle pizze delle pellicole, e poi l'Iraq, la foto di Bush tra Hitler e Stalin, i corpi sparuti dei deportati ebrei ... il film preme un pò troppo sulla denuncia storica che finisce per essere ridondante.
Fatta eccezione dei momenti "malati" in cui il mostro lecca rospi e si eccita con l'odore di carne bruciata, purtroppo il resto giace in sospeso. Slitta sulle corde del genere ma non affonda in nessun punto. Brevissimo nella durata, avrebbe potuto convincersi di più, mentre il finale smorza ogni possibile ripresa di pathos orrorifico facendo ciò che mai un film dovrebbe fare: spiegarsi. 
Guerra e senso di colpa tolgono troppo fiato all'orrore, se invece ci fosse stato un dialogo tra questi elementi sicuramente le buone intuizioni profilatesi nel corso della narrazione avrebbero trovato seguito. Tuttavia, al secondo tentativo di regia, Zampaglione sembra determinato a promettere dei buoni risultati. Aspettiamo fiduciosi.

RICETTA
Per un horror ci vogliono dei sapori forti. In questo caso doppiamente forti perché si tratta di un horror che manca di spezie, quindi bisogna sopperire ad una mancanza. Un piatto al sangue...
FILETTO DI MANZO IN SALSA DI NOCI
4 filetti di manzo di almeno 200g l'uno
panna da cucina
gherigli di noci q.b.
parmigiano grattugiato
farina
burro
pepe
sale
Infarinate i filetti e cuoceteli nel burro, lasciandoli al sangue. Salateli, pepateli e teneteli al caldo. A bagno maria fate scaldare poco burro, un cucchiaio di panna da cucina, il parmigiano e le noci tritate. Versate la salsa calda sulla carne e servite.

Cerca nel blog